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Un ricordo di Bobby Sands, a 35 anni dalla morte

Un ricordo di Bobby Sands, a 35 anni dalla morte
Autore: Anna Germinario - Redazione Cultura
Data: 04/05/2016

5 maggio 1981, prigione di Long Kesh, Belfast, Irlanda del Nord. Bobby Sands, 27 anni, cessa di esistere.

Una scelta volontaria la sua e ben pianificata con i suoi compagni di cella; lui fu il primo a iniziare lo sciopero della fame che dopo 66 giorni lo portò alla fine. Gli altri iniziarono a digiunare a intervalli regolari per prolungare l’impatto sull’opinione pubblica e mantenere alta la pressione sul governo britannico. Furono in dieci a morire; tutti ragazzi sotto i trenta anni.

Chi sono stati questi martiri della recente storia nordirlandese i cui nomi sono sconosciuti a gran parte della gente?

E’ una lunga e tormentata storia quella dell’Irlanda del Nord e della sua popolazione, colonia della Gran Bretagna che da sempre ha mantenuto il pugno di ferro e discriminato gli abitanti di religione cattolica. Non si vuole in questo breve articolo analizzare i milioni di soprusi e le tante atrocità commesse da parte protestante e anche cattolica, per la verità, ma solo far conoscere la determinazione con cui questi ragazzi diedero la vita per la libertà della loro nazione dal giogo britannico.

“The Troubles” – i disordini – è il nome con cui si indicano i conflitti etno-religiosi occorsi  in Irlanda del Nord fra la fine degli anni sessanta e la fine degli anni novanta dello scorso secolo, scontro che ebbe drammatico apice il 30 gennario 1972 passato alla storia con il “Bloody Sunday” dove durante una marcia di protesta pacifica per i diritti civili a Derry, i paracadutisti dell’esercito britannico spararono sui dimostranti inermi e disarmati uccidendone 14 e lasciando menomati molti altri. Gran regalo all’IRA (Irish Republican Army), che già dal giorno dopo il fatto potè contare su un afflusso massiccio e ininterrotto di nuove giovani reclute pronte alla  rivolta armata. Bobby Sands fu tra questi. Lui e la sua famiglia, in quanto cattolici, erano stati costretti a cambiare casa infinite volte. Lanci di sassi, bidoni dell’immondizia venivano scagliati con regolare frequenza contro le loro finestre. Dal  posto di lavoro Bobby, era apprendista carrozziere,  fu prima “invitato” e poi obbligato ad andarsene perché i cattolici erano indesiderati. Ronde di poliziotti inglesi  e bruti comuni pattugliavano i quartieri  e spesso doversi recare da una parte all’altra di Belfast poteva costare la faccia, quando non la vita.

Era così che si svolgeva la vita quotidiana per i cattolici. Discriminazione continua. La lotta armata all’interno dell’IRA parve a molti giovani l’unica via per ribellarsi all’idea di una vita senza futuro.

Era pratica comune negli anni ’70 arrestare “terroristi” nordirlandesi senza uno straccio di prova e senza regolare processo. Deposizioni fasulle erano estorte ai malcapitati sotto tortura e poi via nelle lager-prigioni. Bobby si ritrovò in carcere, e non per la prima volta, con l’accusa di possesso illegale di armi. Fu l’inizio della discesa all’inferno che lui documentò in una sorta di diario “One day in my life”, scritto con mezzi di fortuna su cartine di sigarette o frammenti di carta igienica che in qualche modo, miracolosamente riusciva a far uscire dal carcere. Pestaggi continui, soprusi, violenze psicologiche inaudite, umiliazione corporali come le ripetute perquisizioni anali portarono Bobby e compagni  alla “Blanket Protest”, nel corso della quale si vestirono solo di una coperta come rifiuto di indossare la divisa carceraria., che degenerò poi nella “Dirty Protest”, dove i detenuti decisero di non andare più a svuotare i loro buglioli, ma di spalmare i loro escrementi sulle pareti delle loro celle, rendendo ulteriormente insopportabile la loro condizione di vita. Ma dal momento che ogni volta che uscivano i secondini spaccavano loro qualche osso o qualche dente o li prendevano a calci in faccia o sul ventre…

Bobby e compagni si consideravano prigionieri di guerra e come tali avanzarono 5 richieste, come quella di non indossare la divisa del carcere, il diritto di ricevere visite una volta al mese, il diritto alla libera associazione, di non eseguire i lavori in carcere, diritto ad una riduzione della pena, come per i prigionieri comuni. L’intransigenza di Margaret Thatcher fu totale: con i terroristi non si scende a patti. Mai. Alcune promesse fatte alla fine dell’80, più che altro per far star buoni di detenuti nelle prigioni furono definitivamente rimangiate

Fu in questa cornice di disperazione, frustrazione ed impotenza contro un governo cieco che Bobby decise di iniziare lo sciopero della fame; e dopo di lui uno ad uno tutti  gli altri nove compagni.  E stavolta niente li avrebbe fermati; né la famiglia, in particolare la dolcissima madre Rosaleen che lo assisterà fino alla fine, né padre Magee, prelato irlandese inviato addirittura dal Papa Giovanni Paolo II, né tante altre altre personalità politiche che nel corso di quei 66 giorni lo andarono a trovare in carcere  per indurlo a desistere. Fu irremovibile. Fece anzi giurare alla madre che non avrebbe permesso ad alcuno, lei compresa, di interrompere forzatamente il suo digiuno nel caso, più che probabile, fosse entrato in coma, perdendo quindi qualunque controllo sulla propria volontà. Quando lo deposero nella bara, scheletrico, gli misero tra le mani un crocefisso d’oro massiccio, bellissimo, dono del papa. Lo seppellirono nel cimitero cattolico di Milltown.  In 100.000 parteciparono al suo funerale a Belfast e in molti si unirono spiritualmente al cordoglio in tante altre città d’Irlanda e nel resto del mondo. Le ultime parole che Bobby riuscì a scrivere nel suo diario, in gaelico, prima che le forze lo abbandonassero del tutto campeggiano nei tanti murales che negli anni a venire gli vennero dedicati in Irlanda del Nord. “Non mi stroncheranno perché il desiderio di libertà e la libertà del popolo irlandese sono nel mio cuore. Verrà il giorno in cui tutto il popolo irlandese avrà il desiderio di libertà. Sarà allora che vedremo sorgere la luna”.

 

 

 




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